L’emozione specifica contraria della gioia è la tristezza, la quale è nel lessico emotivo della lingua italiana una delle più ampie.
Ne fan parte: tribolazione, amarezza, malinconia, cordoglio, lutto, sofferenza, dolore, sconforto, tormento, angoscia, pena, disperazione, delusione, patimento, spasimo, strazio,
infelicità, depressione, desolazione, cupezza, rammarico, malumore, malcontento, scontento, rimpianto, inconsolabilità, rassegnazione, nostalgia.
Il fatto che, insieme alla rabbia e alla paura, sia una delle emozioni lessicalmente più ampie, la dice lunga sull’animo degli italiani, tendenti alla reazione e al vittimismo, sempre bisognosi dell’uomo della “provvidenza”.
La tristezza è caratterizzata dal ritiro, dal rallentamento corporeo ed emotivo, dall’isolamento dagli altri e dal nascondimento tipico della elaborazione della perdita di persone e animali o di attività e cose. Probabilmente la tristezza comparve all’inizio come dolore negli animali che si rifugiavano e rintanavano per sanare una ferita o cicatrizzare la perdita di un qualche arto, perciò è più duratura della gioia avendo un compito non solo emotivo ma anche biologico. In assenza di rallentamento e nascondimento l’animale ferito perirebbe.
L’intensità è determinata dalla repentinità della perdita dell’oggetto di attaccamento, dal rifiuto o negazione dell’evento luttuoso, e dalla sconfitta e dal fallimento. Nelle forme estreme porta alla completa inattività e alla incapacità di reagire del soggetto, il quale in balia di una oscura disperazione si lascia andare a ideazioni e talvolta ad azioni di morte.
La durata e l’intensità variano anche a seconda della gravità, soggettivamente percepita, dell’evento. In presenza di rifiuto e di esclusione la tristezza che segue ad un risultato mancato o indesiderato, ad un’aspettativa non soddisfatta o ad un fallimento si ha delusione e caduta dell’autostima e dell’autoefficacia.
Si può esser tristi anche in assenza di un evento di perdita, ma semplicemente per empatia con qualcun altro che è ferito, sta male e ci sta a cuore. Anche negli animali superiori la risposta all’evento della separazione presenta una reazione di disperazione.
Si sono osservate madri scimmie trascinare e tentare di rianimare il piccolo morto per giorni. Anche gli elefanti sostano per giorni intorno al cadavere di un componente del loro branco.
Secondo i dati delle ricerche, la fase di elaborazione del lutto, che l’uomo identifica come tristezza, si ritiene abbia una base biologica e sia presente in tutte le culture e la risposta emotiva della tristezza avrebbe una funzione adattiva di sopravvivenza. Normalmente si è attenti alle manifestazioni di paura e rabbia e si sottovaluta la tristezza. Non va dimenticato che individui solitari e tristi, ritenuti innocui, spesso scatenano una violenza distruttiva o autodistruttiva inaspettata e tragica, perché la tristezza annida sia la paura e sia la rabbia della solitudine e dell’abbandono.
L’elaborazione del lutto. Quando un evento luttuoso o una grave perdita ci colpiscono, la sofferenza che ne segue ci appare come insopportabile ed interminabile. Invece l’animo umano è attrezzato ad affrontare anche questi eventi.
L’esperienza che va ad affrontare viene comunemente chiamata “elaborazione del lutto”. La prima fase è detta dello choc, seguita da negazione e da rifiuto. La sorpresa negativa produce uno stordimento, seguito dall’opposizione interiore dei primi momenti di contatto con la perdita. È come se all’improvviso venisse a mancare qualcosa che non si riesce ad accettare e cambia radicalmente la vita.
La fase elaborativa che segue, deve confrontarsi con le altre emozioni forti come la rabbia e/o la paura e/o i sensi di colpa. A tutti prima o poi tocca confrontarsi con la perdita e con le emozioni negative che attraversano l’anima. Sono quelle che compongono il sentimento della tristezza, la quale si fa pericolosa se non viene reintegrata. Può essere la paura delle conseguenze della perdita o della solitudine, la rabbia per l’accadimento insopportabile, oppure il senso di colpa per quello che non si è fatto o si sarebbe potuto fare. Quando poi la negazione assumesse forme comportamentali del tipo “come se non fosse accaduta”, allora tutto potrebbe risolversi in atteggiamenti di perdita di contatto con la realtà e di rifugio nella paranoia.
Normalmente la spinta della vita porta a patteggiare con la sofferenza e ad iniziare una fase di contrattazione. Qui ha inizio la fase depressiva del pianto nascosto e dell’inconsolabile silenzio, poi lentamente l’anima inizia ad acquietarsi nella rassegnazione.
L’atteggiamento invece in cui le note di tristezza non dessero alcuno spazio a note di serenità, darebbe origine al pessimismo e alla disperazione.
L’elaborazione che invece si avvia verso l’accettazione dell’ineludibile dato negativo di realtà, aprirebbe la fase che normalmente si chiama del “farsene una ragione”.
Reintegrare la perdita è funzionale alla sopravvivenza e alla qualità della vita.
In tutte le culture si assiste al processo di recupero di cose e simboli che rimandano al trapassato, a cui segue una fase di purificazione della memoria per poter ricordare serenamente chi non c’è più.
Le varie fasi dell’elaborazione della perdita variano dal tipo di legame, ma anche dal significato che si attribuisce all’evento e alla interpretazione della morte. Chi ha fede sicuramente ha un vantaggio nell’affrontare il lutto: é meno esposto alla disperazione ed è confortato dalla speranza.
Chi è legato alle cose e alle persone da bisogno e dipendenza, sicuramente vivrà le perdite come un tradimento inaccettabile. Se dopo anni non venisse superato lo stadio di choc e rifiuto, sicuramente si ha bisogno di aiuto, perché si rischia di rimanere intrappolati in un sentimento che assume contorni poco sani per la salute psichica. In questi casi l’aiuto di un esperto diventa consigliabile e necessario.
La depressione è una gran brutta bestia. Costringe la persona all’angolo dentro una solitudine irraggiungibile che non sa come risolvere. Chi ne è stato vittima fatica a capacitarsi come ne sia uscito. A volte il tempo aiuta. A volte è solo la mancanza di coraggio di chiudere. La scelta tragica nella mente del depresso appare come ineluttabile.
Se si hanno intorno persone depresse, conviene lasciar stare le parole: hanno poco potere su di loro. Dare invece vicinanza vera, fisica, piena di calore e contatto, riconcilia con la vita, anzi con la vivezza della vita.
Ancora una volta la medicina è l’amore. Ma quanto è difficile dimenticare se stessi per andare incontro all’altro! Ma nella depressione, oltre all’aiuto medico, la medicina più potente è spesso la mano amica che ti prende.